Se lo sono e su questo credo siamo tutti d’accordo, come mai spesso non sono trattate come tali?
Ieri sono stata al Forum delle HR a Roma. I temi affrontati erano vari nell’ambito lavorativo. Una sezione della giornata per me particolarmente interessante, poiché mi appassiona il web, è stata “Employer branding e talenti 2.0”. Uno spazio in cui si è discusso dell’importanza della rete, della sua utilità sia come strumento di conoscenza che di promozione. Intereventi interessanti di Luca Sartori, Luigi Grimaldi, Andrea Genovese.
La rete è ormai qualcosa di cui non possiamo ignorare l’esistenza, perché come è stato detto ieri, tutti noi lasciamo una traccia, ci siamo comunque dentro. E allora tanto vale conoscerla e usarla con consapevolezza. Cosa che alcune aziende sanno fare molto bene attraverso una comunicazione che passa anche per i social network, youtube , motori di ricerca e tutti gli strumenti a disposizione nel vasto universo della rete.
L’Employer branding è la costruzione non solo dell’immagine di un’azienda, che è possibile raccontare anche attraverso un sito, ma della sua reputazione. Cosa mi fa desiderare o accettare un posto in una data azienda? Quali valori condivido con quel particolare datore di lavoro? Internet in questo ci può aiutare a trovare informazioni, opinioni, studi.
Il punto però è: cosa succede una volta dentro? Certo in un periodo in cui le notizie raccontano quasi solo di posti di lavoro cancellati, imprese in chiusura, occuparsi dell’ employer branding sembra un po’ dissonante. E’ certamente utile e affasciante per certi versi, ma è importante tornare a occuparsi anche delle risorse umane, di coloro che nell’azienda ci lavorano già; può essere un cambio di prospettiva meno moderno forse, ma a mio avviso in questo momento più efficace. Come è possibile riportare i “clienti interni” a essere visti, percepiti come una risorsa preziosa da valorizzare affinché questa possa rendere l’azienda competitiva non sulla base di un basso costo del lavoro, ma sulla base dei suoi talenti, della capacità di fare la differenza? Attraverso la formazione e prima ancora, l’ascolto.
I buoni manager conoscono i propri prodotti, i propri collaboratori, girano per i corridoi, chiedono, ascoltano e da questa relazione preziosa arrivano spesso idee ma anche soluzioni. Questo approccio si può imparare e soprattutto insegnare.
E poi la formazione, che costa certo. Ma assumere costa, e costa ancora prima di chiudere un contratto. La ricerca del personale costa, la selezione costa. Una volta dentro, anche la persona più in gamba, più preparata, ha bisogno di tempo per capire il proprio spazio, imparare quello che ha intorno, conoscere chi gli sta accanto, farsi conoscere. Questo periodo di assestamento non è molto produttivo, perché ovviamente i risultati, la performance non potranno essere al massimo. Quando finalmente una persona inizia a integrarsi e a far parte dell’azienda è il momento di spingere, di inserirla in un programma di formazione, di sviluppo e anche di scoperta delle potenzialità per l’interesse di tutti e invece spesso per quella persona non c’è più niente se non lo spauracchio di rischiare il proprio posto.
Assumere è un investimento che va fatto con oculatezza, ma poi valorizzato. Alcune aziende sono impegnate in questo. Ci sono dirigenti illuminati che addirittura hanno creato un team di coach per aiutare ad affrontare i cambiamenti aziendali, o attivato strumenti tecnologici per veicolare al meglio il supporto formativo, ma in generale mi sembra di vedere uno scarso interesse nelle risorse umane vissute più come un problema che come una risorsa.
Forse per potere andare avanti è necessario fare un passo indietro. La tecnologia, internet e l’employer branding sono strumenti nelle mani delle aziende e di tutto il mondo del lavoro per migliorare il processo di comunicazione, di ricerca, di sviluppo, l’impegno da affrontare è però alla base, in due parole: Risorse Umane e tutto quello che queste due parole significano.